Ebbene sì, caro comunista, anticapitalista, tu hai tutta la mia simpatia, una simpatia sincera. Perché anche io sono stato “comunista”.
Ma anche tu, se vuoi fare del tuo anticapitalissmo una leva dialettica attuale ed efficace, devi rendere il Marx che è in te “attuale” e, soprattutto, farti una ragione di un fatto: anche Marx aveva torto. Nulla da obiettare sulla grandezza del pensiero Marxiano, sia sul piano economico, su quello filosofico, e direi anche sul piano antropologico. La capacità di Marx di teorizzare e sintetizzare la complessità del modello economico in via di definizione 150 anni fa, definirne le implicazioni sociali e proiettarle nel futuro, è di immenso valore, tutt’oggi.
La critica di Marx non era solo una critica al “sistema del capitale” in via di definizione, ma soprattutto alla società industriale e, in sostanza, al diritto di proprietà. E in buona sostanza, l’impianto teorico Marxiano mantiene la sua validità, in quanto la nostra è una società industriale, direi post-industriale, ed è una società in cui il diritto di proprietà ha invaso anche l’impalpabile, persino le parole.
Validissima ed attualissima l’analisi dei rapporti di classe e della loro relazione col diritto di proprietà. Straordinaria e visionaria la sua interpretazione del processo di alienazione implicito nel processo produttivo uomo-macchina, tanto più attuale oggi nella società della macchina pensante e dell’uomo-automa. Analisi brillanti perché sono quadri d’autore sul piano antropologico della nostra società contemporanea.
Ma è proprio la sua lettura del “capitale” che non è più attuale. Ma non solo inattuale, ma anche fallata nel suo impianto teorico. E questi sono elementi che minano alla base molto della critica Marxiana all’attuale società del libero scambio di titoli finanziari. E l’adozione dell’analisi di Marx come dottrina e non come studio, rischia di rendere assolutamente inutile molto della pur legittima critica all’attuale capitalismo globale.
Per poter fare una critica Marxiana alla società attuale, bisogna prima avere il coraggio di criticare Marx. Altrimenti si scivola inesorabilmente nell’ideologia dogmatica.
Il capitale cui si riferiva Marx, non esiste più. Il capitale studiato da Marx era ricchezza “materiale” che si materializzava in potere “oggettivo” di compravendita, che in un economia di scambio determinava differenziali “oggettivi” di potere, quantificabili “oggettivamente” in disponibilità valutarie in quanto il “valore” della valuta era supportata dalla disponibilità limitata di beni riserva, tipicamente l’oro, il cui valore “oggettivo” (nella visione di Marx) era la capacità della società di determinare la disponibilità di tali beni. Nella visione di Marx si determinava il differenziale (plusvalore) tra il valore d’uso dei beni (un valore primitivo) ed il valore di scambio (quello negoziale) che determinava un differenziale di potere tra il padrone (detentore del diritto di proprietà e di produzione) e lavoratori in competizione per motivi di sopravvivenza ad erogare prestazioni al minor costo possibile. Un differenziale tanto più accentuato quanto più la globalizzazione determinava concorrenza al ribasso tra uomini e l’industrializzazione determinava concorrenza sleale tra uomo e macchina. Da questa lettura l’analisi del sistema economico diveniva critica politica e sociale.
Da questa prospettiva (ovviamente semplificata da me) nasce l’ideale comunitarista, substrato etico del comunismo, l’idea di un’umanità che condivida il valore oggettivo del lavoro, e di conseguenza il valore d’uso e di scambio coincidano, annullando il potere del plusvalore e di conseguenza la differenza di classe.
Il problema di fondo di tale impianto teorico è tutto sommato evidente. Il valore d’uso in economia non esiste, esiste solo il valore di scambio. Il valore di un bene in sé è la misura della necessità di un bene, e si stabilisce in una negoziazione, e quindi per definizione è valore di scambio. L’automazione e la disponibilità di energia non hanno fatto altro che evidenziare la fallacità in termini economici del ragionamento di Marx. Le macchine non attribuiscono ai beni un valore d’uso e viceversa sono in grado di portare il valore dei beni (superproduzione) verso il suo limite inferiore, determinato dalla disponibilità di energia.
Il valore d’uso, in sostanza, è un concetto puramente strumentale ipotizzato da Marx per scopi (degnissimi) di carattere “umanitario” ma che nel contesto di una società industriale (prima ancora che capitalista) non ha nessun significato (semmai si parla di costo del lavoro). In termini antropologici, il concetto elaborato da Marx ha valenza di monito rispetto ai pericoli del processo di globalizzazione e di industrializzazione, più che di deriva del potere capitalista inteso come super potere della finanza.
In sostanza l’analisi Marxiana, oggi, può solo avere valenza di sviluppo della coscienza sociale rispetto ai rischi del “progresso” tecnologico e della globalizzazione della produzione, ma non può portare a nessuna visione alternativa al potere dei “capitali” finanziari.Ma c’è dell’altro. Il “capitale”finanziario di oggi è immateriale quanto l’energia, perché esso è un derivato dell’energia. BitCoin è forse l’emblema di questo paradosso apparente; l’energia (capacità elaborativa di automi) capace di generare valuta (monete) virtuali ma con potere di scambio reale. E questo Marx non poteva immaginarlo. E’ un capitale che può materializzarsi in beni reali o smaterializzarsi in un attimo, con puro valore di scambio basato sulla fiducia accordata alla valuta dal mercato.
E’ un po’ questo quello che mi delude di buona parte della politica anticapitalista di stampo Marxiano. Il proposito di contrastare qualcosa che non si è ben compreso, la finanza, utilizzando strumenti teorici, che pur utili, hanno limiti enormi e necessitano un’attualizzazione critica.
Senza di essa, l’universalismo, il comunitarismo, rischiano di diventare la porta ideologica della globalizzazione del lavoro, l’inflazione asintotica del valore d’uso del prodotto del lavoro.
L’uomo merce.