La nuova normalità ci ha portato tante belle innovazioni, ed altre ne arriveranno. In attesa che venga superata la vetusta barriera culturale che separa l’essere umano dalla macchina, intanto possiamo gioire dell’abbattimento del retaggio patriarcale che distingue gli esseri umani in maschi e femmine.

Ce lo dice la scienza, che la distinzione tra uomo e donna è culturale e non biologica. E tutto grazie al femminismo post sessantottino che si è fatto portatore di questo progresso, inutilmente ostacolato da negazionisti misogini etero-normativi.

L’ideologia si è fatta scienza ed ora persino le femministe si perplimono per le implicazioni di tale successo epocale quando vedono abbattuta sul ring la loro pugilessa preferita stesa al tappeto da un uomo che ha deciso di indentificarsi come donna, o quando sul podio dei 100 metri femminili festeggiano tre nerborute “donne” dai mal celati tratti mascolini.

Dal Canada ci giunge un episodio aneddotico (qui il link in inglese per chi volesse flagellarsi il fegato nella lettura dei dettagli della storia).

Robert Hoogland è stato arrestato e incarcerato con l’accusa di violenza familiare.

Picchiato la moglie? No, non proprio.

Stuprato la figlia? E no…direi proprio che non ci siamo.

Robert è finito in carcere per essersi opposto alla transizione di “genere” della figlia di 14 anni e chiamato in giudizio in aula ha osato riferirsi alla figlia col pronome sbagliato, il “lei” invece del “lui”.

Più precisamente la storia è andata così.

Robert divorzia dalla moglie e la figlia, in affido alla moglie, inizia ad avere problemi di stabilità emotiva che si aggiungono a quelli tipici dell’adolescenza; tende a creare problemi a scuola, si trova a suo agio più con i compagni di sesso maschile pur palesando attrazione per due insegnanti di sesso maschile (il che dovrebbe dire qualcosa), si taglia i capelli e alla fine tenta il suicidio.

La scuola propone alla figlia di Robert del materiale informativo legato all’ideologia gender e alla fine, a insaputa dei due genitori, la scuola decide di cambiare nell’albo scolastico il nome della figlia da femminile a maschile, sulla base della “volontà” della ragazza e del parere di uno psicologo, un tale Wallace Wong che si fregia del primato di avere tra i suoi assistiti “in transizione di genere” un bambino di soli tre anni.

Per farla breve, la figlia è stata avviata su consiglio dello psicologo di cui sopra, con l’ausilio della scuola e con l’assenso della madre verso la transizione di genere, ed ha iniziato un trattamento sperimentale a base di testosterone.

Robert si è opposto (ma perché il padre ha ancora voce in capitolo?) sostenendo che la “transizione” era una scelta irresponsabile e che l’85% dei ragazzi che soffre di disforia di genere, desiste dalle intenzioni di “cambiare” una volta superata l’adolescenza.

La Corte ha risposto a Robert che il suo consenso era irrilevante e che la sua opposizione si qualificava come violenza familiare.

Chiamato quindi in giudizio in qualità di “accusato” ha osato riferirsi alla figlia con il “lei”. Manette e carcere.

Questo è quanto.

Un caro saluto.